Mirella da Voghera ci rovinerà?

E’ successo a tutti. Avere la febbre ed essere circondati da persone affettuose che vogliono fare abbassare la temperatura.

E’ un esempio meraviglioso della confusione che regna sovrana e degli effetti della pubblicità sull’uomo medio. La febbre non è (quasi mai) il vero problema, ma una manifestazione di un problema medico (spesso un’infezione). Eppure la grandissima maggioranza degli individui si concentra sull’epifenomeno, lo fa guidata dall’istinto e dall’affetto. Così come la maggioranza prende farmaci anti-dolorifici a go-go, senza sapere la causa del dolore, che per fortuna esiste e ci segnala un problema spesso risolvibile.

Perché?

Ho due risposte:

1. La maggior parte di noi nota solo il fenomeno più evidente (evidenze superficiali)

2. Non molti possiedono una forma di pensiero critico

Sul primo punto, gli insegnanti delle scuole, i medici e gli scienziati in genere, devono imparare a comunicare meglio. E questo è di vitale importanza. L’autorevolezza delle conclusioni scientifiche si basa sulle evidenze, e la loro utilità sulla capacità della gente comune di comprenderle. Le evidenze non sono quelle che sembrano o che ci appaiono ad una affrettata e limitatissima prima impressione (fatti alternativi?). Se rubano la macchina del nostro amico carissimo non vuol dire che siamo all’apocalisse e che ruberanno tutte le auto. Non si può trarre una conclusione scientificamente affidabile su un campione minuscolo. Anche se è il campione dei nostri amici intimi.

Sul secondo: studiare è faticoso, ed è molto più facile affidarsi alle impressioni, al sentito dire dei vicini (gossip), all’intuito, che spesso funziona, ma che invece ci fa anche commettere errori madornali in alcune delicatissime circostanze.

Gli istinti, le impressioni, il pensiero “veloce”, così ben descritto dal premio Nobel Daniel Kahneman, servono eccome. Ci hanno fatto sopravvivere per milioni di anni. Hanno consentito la riproduzione in condizioni estreme. Il rischio è che ora ci portino all’estinzione.

Il complesso delle decisioni su basi istintive ha delle solide radici nell’evoluzione, chi dei nostri antenati non era in grado di decidere in una frazione di secondo che un’ombra a forma di leone fosse un pericolo, beh probabilmente non è sopravvissuto. La decisione rapida come chiave del successo.

Oggi però abbiamo davanti decisioni importanti con conseguenze a medio-lungo termine.

Pensate ai vaccini. La decisione non può essere istintiva (“io preferisco morire che essere mai eventualmente danneggiato da terzi”). Ma per prendere decisioni bisogna parlare con garbo di grandi numeri, di probabilità. Due concetti non immediatamente comprensibili a molti.

Anche alcune piante carnivore contano. E infatti contano, ma solo fino a tre. Dopo tre eventi di contatto si richiudono per catturare la preda. Hanno inserito nel loro programma genetico, che tre eventi (tre passi) non possono essere una coincidenza, o almeno lo sono molto raramente. Spesso tre eventi vuol dire la presenza di un insetto da digerire per sopravvivere.

Ecco, molti esseri umani sono come piante carnivore e contano solo fino a tre. Se succede due o tre volte, allora deve essere vero. Manca ovviamente il denominatore.

Se ci sono state due reazioni allergiche ad un farmaco e invece alcuni milioni di individui ne traggono enormi benefici cosa diciamo, che è un farmaco pericoloso?

Le evidenze sono proprio questo, cioè misure. Naturalmente vanno analizzate nel contesto, ma si discute di tutto tranne che delle evidenze!

Prendiamo le fake-news (bufale), esse non sono affatto uno strano scherzo del destino. E’ normale che ci sia una piccola fetta di individui con poca cultura o semplicemente sociopatici che diffonde inesattezze e menzogne. L’unico rimedio è istruire la popolazione in maniera sufficiente a renderla capace di distinguere le evidenze dal pensiero sempliciotto, istintivo, e non basato sulle evidenze. In sintesi dovremmo rendere immune la maggioranza dal pensiero superstizioso.

Il superstizioso, si dirà, non nuoce a nessuno se non a se stesso. Invece il mio argomento è che la superstizione ci seppellirà se non combattiamo adesso. La superstizione deleteria è esattamente l’insieme dei comportamenti supportati dall’istinto e fondati sulle impressioni e sulla paura.

Non immagino un mondo in cui prima di scegliere i gusti del gelato ciascuno faccia una revisione della letteratura scientifica per verificare gli ultimi dati sull’associazione pistacchio-ulcera peptica.

Ma spero in una società dove il ciarlatano-chiromante non possa più arricchirsi a spese degli ignoranti, il malato terminale non vada dall’omeopata a morire, il giocatore d’azzardo non rovini la sua famiglia e i suoi figli per il numero ritardatario, e il teista indottrinato non possa farsi saltare in aria perché qualcuno gli ha raccontato che lo aspettano le vergini in paradiso.

Il motore di molti superstiziosi è la diffidenza verso gli altri, la loro scarsa fiducia nella propria intelligenza e nel futuro. O forse spesso sono solo i figli di un indottrinamento precocissimo, fatto a discapito della loro libertà.

Il motore della scienza è invece la fiducia nel pensiero critico, nelle idee, nelle ragioni. E la scienza deve mostrare ora il suo volto più umano e più utile. La sua passione per il vero può essere la chiave della sua empatia. La scienza deve parlare alla gente per non lasciare il campo alla minoranza di barbari. Coltiviamo il dubbio, l’analisi, studiamo, pensiamo.

Basta istinti deleteri. Viva la vita piena e consapevole.

La battaglia è appena iniziata.

Arif e il merito. Il sostegno allo studio in salsa leghista

Il mio articolo per iMille magazine

Sul finire degli anni ottanta emigrare e studiare a Torino non era una scelta facile. I ragazzi del meridione che scartavano le facoltà vicine sceglievano questa città per il Politecnico. Lo facevano attraverso un passa parola, con beneplacito di qualche parente che magari aveva avuto trascorsi in questa città come operaio e ne ricordava il profilo austero e la fama del Poli.

Scegliere Torino allora voleva significare essere etichettato come il “secchione” della classe perché la città, negli occhi dei liceali smaniosi di fare un’esperienza di vita fuori di casa, non sembrava offrire grandi distrazioni. Si preferiva Roma, Milano, la godereccia Emilia o le città a misura d’uomo della Toscana.

Un alloggio condiviso a San Salvario con qualche compaesano, pochi soldi, pochi posti letto in collegio (sistemazione preferita da genitori un po’ preoccupati dalla grande città); una via Roma monumentale ma deserta, le piazze di Torino utilizzate come parcheggi. Era questo il panorama di allora che si presentava agli studenti emigranti mentre crollavano i muri, arrivava Tangentopoli e Torino finiva sui telegiornali per la Fiat e il “problema” San Salvario cavalcato da Borghezio e soci.

Di quegli anni sono rimasti loro, gli uomini verdi. I “marziani” hanno conquistato il potere in questi vent’anni quando tutto intorno a loro è cambiato.

Torino è diventata più vivibile anche nell’ottica di uno studente fuorisede, l’ente regionale per il diritto allo studio ha triplicato i posti letto grazie ad investimenti pubblici e all’eredità olimpica, le piazze sono pedonali e a San Salvario vanno ad abitarci i professionisti di grido. C’è anche la movida studentesca, i bus notturni per i ragazzi, le bici del bike-sharing prese alle due di notte per tornare a casa.

Il “problema” dell’emigrazione, è ben controllato e gestito da un’amministrazione aperta e lungimirante. Torino non è Milano, non è Roma.
C’è un certo rigore e anticipo nella gestione dei problemi che ti viene introiettato quando vivi questa città. Anche mentre cerchi di passare l’esame di Geometria, ed è forse il motivo per cui molti poi rimangono o comunque ricordano Torino e il Piemonte come una bella esperienza.

Anche gli studenti sono cambiati. I meridionali continuano ad arrivare, confortati dai successi professionali dei loro fratelli maggiori, ma si sono aggiunti studenti stranieri: gli erasmus, gli albanesi adottati, i cinesi, i pachistani come Arif.

Loro rappresentano l’ultimo anello, quello più debole e da colpire da parte di una politica vigliacca attraverso il taglio di ottomila borse di studio. La città, l’Università, il Politecnico, l’EDISU dopo aver investito per anni per attrarre studenti da ogni parte del mondo si trovano di fronte alla scelta di dover smobilizzare investimenti immobiliari per far fronte ai tagli regionali.

La bandiera oggi è improvvisamente il merito (come se fino a ieri i criteri meritocratici non fossero inseriti nei bandi delle borse di studio) e la Lega – attraverso il suo governatore – la cavalca in maniera scomposta come può fare una forza politica che ha sostenuto una battaglia politica anche per far diplomare il figlio del capo.

Vincenzo Laterza, rappresentante degli studenti dell’EDISU mette in discussione il nuovo mantra del governatore “Cota dice: d’ora in poi il criterio dovrà essere quello della meritocrazia, che finora non è esistito. Non è possibile che i soldi pubblici vengano spesi in questo modo, che al primo anno di università l’unico criterio sia il reddito. Il merito deve diventare un principio sacrosanto.

Il governatore si sbaglia: oltre ai parametri di reddito, infatti, l’Edisu prevede soglie di merito da rispettare. Solo per gli studenti iscritti al primo anno è previsto esclusivamente il parametro d’ingresso relativo al reddito. Questi ultimi, però, sono comunque obbligati a raggiungere 20 crediti entro l’anno accademico (di fatto un criterio di merito). Quando questo non avviene, il borsista è obbligato alla restituzione del 100% della borsa di studio ed al pagamento dell’affitto mensile nel caso abbia usufruito di un posto letto”

Il giovane rappresentante smonta anche la proposta del governatore di far pagare alle Regioni di provenienza parte delle borse di studio: “Tutti gli iscritti agli atenei piemontesi pagano una Tassa regionale per il Diritto allo Studio. L’ammontare di questa tassa è superiore ai 13 milioni di euro. La tassa è riscossa interamente dalla Regione Piemonte a prescindere da chi la paghi, sia piemontese, cinese, salentino o siciliano.”

Un taglio ideologico, fuori tempo massimo in una fase in cui il nostro Paese sta subendo un profondo cambiamento di valori nel giro di pochi mesi e la formazione diventa una delle chiavi di volta per uscire dalla crisi. E’ un segno di stupidità forse consapevole: togliere fieno a chi con il cervello può criticare determinate scelte politiche per darlo in giro alle feste di paese dove il ritorno elettorale è garantito.

L’anno scorso Arif ha dovuto dormire per qualche notte in stazione e di giorno seguire i corsi al Politecnico. Ha seguito tutti i passi necessari per ottenere quest’anno una borsa, avendo ottenuto 30 crediti su 50. Sperava di vivere il suo secondo anno torinese con più tranquillità ed invece improvvisamente non ha più le risorse economiche per pagarsi il rinnovo del permesso di soggiorno. Studente e clandestino, l’identikit forse più inviso agli elettori della Lega.

In soccorso di Arif è intervenuta l’associazione Acmos che ha deciso di affrontare questi casi emblematici ospitando temporaneamente Arif e i suoi amici in una casa di accoglienza. Francesco Mele, segretario del PD di San Salvario – la storia si ripete riabilitando i luoghi della protesta leghista di ieri in un ottica di integrazione delle culture che il quartiere tra mille problemi vive come risorsa – ha proposto agli altri circoli democratici cittadini di sostenere economicamente Arif. La proposta è stata accolta ma altri 7.999 studenti italiani e non, in gran parte piemontesi, si trovano di fronte ad una scelta che può cambiare radicalmente la loro esistenza.

Arif ringrazia su Facebook chi si è preoccupato per lui e i suoi amici ma un Paese civile non può rendere virtuale un diritto sancito dalla Costituzione.

La difficoltà di guardarsi allo specchio

In questi giorni il web impazza di segnalazioni sui figli di papà e mamma di questo governo.
Persino nelle chiacchiere sui posti di lavoro si discute dei discendenti di Monti, Fornero e Cancellieri per non parlare del Ministro Martone (l’unico un po’ fuori le righe onestamente).
Questo atteggiamento non era mai esploso con questa virulenza – e mal celata invidia sociale – negli ultimi tempi. Neanche nei momenti più bui quando il Trota era difeso dal padre contro gli insegnanti “terroni” colpevole di fermare un ignorante pluripatentato. Nessuno, per esempio, si è indignato nello scoprire che la CEPU venisse promossa a rango di ateneo telematico con relative prebende pubbliche. E se c’era invidia sociale nei confronti di personaggi come la Minetti, assistente alla poltrona laureata, non era per il titolo di studio ma per come si fosse costruita il suo curriculum e non solo.

L’improvviso risveglio della coscienza collettiva – sempre e comunque “contro”, molto fiera spesso della sua mediocrità – è imputabile solo a qualche infelice battuta dei nostri attuali ministri ?

Non è una chiave di lettura convincente. C’è qualche carattere antropologico del popolo italiano che vuole emergere e dirci qualcos’altro.

La storiella del saggio che punta il dito alla luna può spiegare questa situazione. I messaggi che arrivano in questi giorni da vari fronti ministeriali esprimono l’esigenza di un radicale cambiamento della società italiana: i ragazzi debbono essere meno mammoni, debbono muoversi, debbono sapersi confrontare con un mondo del lavoro diverso. Questo messaggio non urterebbe un giovane francese o inglese. Non urta neanche un calabrese che fa 1000 chilometri per studiare al Politecnico di Torino. Non urta un pachistano – notizia vera segnalatami stamattina – che, dopo aver visto tagliata dal governo Cota la sua borsa di studio, ha continuato a dare esami all’Università dormendo alla stazione di Porta Nuova. Con tre euro in tasca ma una voglia di riscatto degna di ben altro sostegno da una società civile ormai assuefatta.

L’assuefazione evidentemente porta a confondere la luna con il dito del saggio. Qui, l’indignazione è pronta a venir fuori con tutto il corollario di email, post, link, articoli di giornalisti che hanno fatto il praticantato nelle testate possedute dall’utilizzatore finale della “assistente alla poltrona”.

La colpa sarebbe la carriera agiata dei figli di papà: tutti splendidamente laureati per tempo, con borse di studio ad Harvard o comunque con periodo di soggiorno all’estero, assunti da organizzazioni internazionali che non guardano in faccia a nessuno (perché solo da noi guardano il cognome prima del titolo di studio). E’ ovvio che essendo espressione di un’alta borghesia intellettuale i padri abbiano spronato i figli a studiare (con ampio rispetto dei loro insegnanti e della scuola pubblica). E’, altrettanto, ovvio che le relazioni familiari di un certo livello favoriscano occasioni che non tutti possono avere, ma sono anche un onere e un continuo sprone. Per dire, con tanta fortuna e cotanto cognome, potevano starsene comodi a casa, laurearsi arrivati quasi agli anta e trovare sistemazioni tranquille e comunque soddisfacenti.

A molti sfugge che c’è per fortuna in molti italiani ancora la voglia di non essere da meno della propria storia familiare. C’è il giusto ambire, la voglia di riscatto oggi presente molto di più negli occhi dei nuovi italiani. E’ un meccanismo questo che ha permesso l’evoluzione positiva della nostra società negli ultimi quarant’anni fin quando abbiamo pensato fosse più semplice illudersi. O darla.

Stranamente non fa notizia che il figlio del premier sia disoccupato in un’epoca dove non c’è deputato che abbia sistemato i parenti fino al secondo livello, compreso il tanto caro Di Pietro (con il figlio in politica, con quali meriti specifici?) e i gli amati grillini, pronti ad utilizzare alcuni privilegi dello status di consigliere regionali per le gentil consorti.

Insomma forse a questa parte di Italia – molto trasversale – non va giù di rimboccarsi le maniche. Non accetta che l’unica soluzione è rinunciare ad un sistema di privilegi, anche piccoli e marginali (difesi molto bene allo stesso modo da sindacati e Confindustria) ma pur sempre tali, altrimenti come Paese non usciremo da queste secche. Questa parte d’Italia trova molto più comodo far finta di non vedere che il sistema sta crollando con la complicità di tutti spostando il problema su casi personali. E lo fa con gli stessi strumenti mistificatori inventati ed utilizzati da chi in vent’anni ha contribuito enormemente a portarci in questo stato.

Come popolo troviamo più comodo farci illudere che la vita (degli altri) è semplice, piuttosto che rimboccarci le maniche.

I valori sballati della democrazia italiana

La società italiana deve cambiare e in fretta. E’ questo il messaggio che leggo tra le righe della manovra di Monti. Può apparire un interpretazione banale ma leggendo le reazioni che circolano in rete e anche le opinioni di stimati giornalisti come Giannini e Boeri la sensazione è che nel sangue degli italiani ci siano ancora troppe tossine dell’epoca berlusconiana.

Facciamoci un’analisi del sangue. Uno squilibrio abnorme tra colesterolo buono e quello cattivo. Bisogna mangiare più omega tre come dicono i medici: gli italiani hanno perso l’abitudine a informarsi come si deve sulla cosa pubblica. Dopo un ventennio di promesse mai mantenute e di finanza creativa si sono persi gli ordini di grandezza dei problemi. La colpa è dei media ma anche degli italiani che forse hanno seguito molto di più i processi e le leggi ad personam – il colesterolo cattivo – dimenticando di esercitarsi nel confronto politico sui problemi economici e sociali del Paese. Il guaio è che in questo errore c’è cascato anche il centrosinistra compreso il PD che una proposta vera, alternativa, su paradigmi diversi non l’ha mai tirata fuori.

La controprova è che sulla manovra anche abili giornalisti hanno riproposto la chiave di lettura della manovra agostana tirando fuori ipotesi prive di fondamento. Monti meritava più rispetto solo per la sua apertura in conferenza stampa.

Carenza di fosforo. Come è possibile dimenticarsi quello che abbiamo passato per vent’anni o anche solo negli ultimi mesi e scatenarsi contro il primo atto partorito in due settimane da un governo appena insediato ? Agli smemorati di Collegno consiglio di rileggersi gli articoli di Boeri e di Scalfari di quest’estate dove era del tutto evidente che ogni ipotesi ventilata (a mercati aperti, my God!) era una tassa in più nei mesi futuri. In ogni caso non dare credito per sei mesi a questo governo quando si è votato, si è sostenuto, e ci si è persino rassegnati a Berlusconi, Bossi e Tremonti per anni, mi sembra assurdo.

Alta presenza di piombo. E’ una cattiva aria. Sarà anche lo sblocco di aspettative generatesi con la caduta di Berlusconi ma i conti sono da pagare e purtroppo in Parlamento a condizionare il gioco ci sono gli Scilipoti, i Cicchitto e i Di Pietro che al bene del Paese preferiscono l’interesse personale (in più Alfano non da grandi garanzie di tenuta del PDL). Quindi scordiamoci che si possano realizzare le cose che farebbe un governo di centrosinistra almeno in questa prima fase critica.

La medicina è amara ma come dicono sempre i medici nei casi più gravi la guarigione parte da noi stessi: siamo più seri, informiamoci meglio, inseguiamo meno le veline (che quasi quasi, ieri, a qualcuno sembravano essere meno sgradevoli nei comportamenti dell’emozionata e sincera Fornero). Se crediamo in noi stessi possiamo lottare contro la malattia ad armi pari. Cogliamo l’occasione di rinascere, l’esempio sotto gli occhi di tutti è quello di Napolitano che con un consenso popolare enorme e il rispetto delle regole ha abbattuto un virus che sembrava invincibile. Il nemico da abbattere per noi italiani e per il governo Monti ora è la cattiva politica: se il premier sentirà crescere un consenso forte nella società civile questo governo potrà far digerire ad una classe politica ormai ombra di se stessa le vere riforme che servono a questo paese.

I guastafeste sono altrove

Il mese di ottobre si chiude e con questo tre settimane di incontri tra persone e personaggi che dovrebbero rappresentare il futuro del movimento democratico. Scartando i giovani turchi che hanno avuto anni per essere plasmati dall’attuale classe dirigente PD e che preferiscono aspettare il loro momento per pure ragioni anagrafiche non rimane che parlare di Pippo Civati e Matteo Renzi cui va riconosciuto il merito di smuovere la base e più in generale le menti e i cuori del popolo di centro sinistra.

I due hanno capito che il popolo democratico è stanco delle vecchie liturgie e hanno capito le opportunità di un partito aperto utilizzando modi di confronto nuovi che creano un riavvicinamento tra la base – che ne esce entusiasta anche per il solito fatto che ne è liberamente coinvolta – e la politica. Normalmente quando si partecipa a queste iniziative si torna a casa rigenerati a prescindere dai contenuti espressi.

Questo coraggio di innovazione dei modi e dei tempi della politica scopre le debolezze dell’attuale segreteria (sabato c’era un penoso tweet del PD nazionale dove si precisava che l’iniziativa “finalmente sud” era programmata da un anno. L’anno scorso successe lo stesso, ma senza tweeter). I due hanno il merito di sollevare il problema dell’identità del partito superando due criticità: -antiberlusconismo -la mancanza di un programma alternativo riconoscibile.

Rampini nel suo nuovo libro sembra avere più certezze sulle cose da fare del nostro segretario. La cosa è paradossale.

Questi due problemi assieme alle nuove forme di coinvolgimento e al coraggio di dirle a chiare lettere sui blog (Pippo) e in video (Matteo) rappresentano gli aspetti positivi degli eventi di Bologna e Firenze assieme ad uno stile comunicativo garbato – ben altro dalle ramazzate linguistiche e lessicali di Di Pietro e Grillo – e per lo più deberlusconizzato (citato poco, irriso molto bene cose che difficilmente riescono Bersani & soci).

Alcuni aspetti però sono poco chiari. La strutturazione di questi eventi dopo due anni sembra un dejavu che al termine non smuove granché. Anche quando c’è un lavoro di sintesi alla fine queste proposte tardano a diventare politiche nel senso di riconoscibili come tali al di fuori della cerchia degli addettti ai lavori, dei dirigenti del partito e più in generale dell’opinione pubblica. Sembra più una carrellata di buone pratiche (per lo più di amministratori del PD che non si capisce come non siano in grado di comunicarle ai vertici con le strutture interne dei dipartimenti o dei responsabili tematici che dovrebbero fare lavoro di sintesi) e di posizioni individuali per lo più di soggetti vicini all’organizzazione dell’evento. Anche qui c’è un piccolo meccanismo di cooptazione che per esempio mancava nel Lingotto degli autoconvocati.

In compenso il popolo democratico puntualmente si spacca sui social network dietro i protagonisti, come tifoserie contrapposte che fanno la fortuna di giornalisti e della maggioranza politica che ficca il coltello nella piaga. In più l’elettore critico vedendo questo atteggiamento alla fine si distacca ulteriormente.

Cinque minuti, l’uso di slogan efficaci non costruiscono soggettività politica e di questo credo che ne siano consapevoli i due protagonisti ma i wiki PD sanno di qualcosa di già visto. Forse è l’unico mezzo per superare quella muraglia interna al PD impermiabile alle idee e alle energie che ci sono.

Ci fossero i momenti, i luoghi e le strutture interne al partito dove portare i vari contributi potremmo capire se le soluzioni di Renzi o Civati siano compatibili con un’identità programmatica del partito democratico. Questo è il problema più grande del partito, a tutti i livelli, che per ragioni di apparato ha perso le capacità di ascolto e confronto non con il suo popolo ma con la stessa sua base di iscritti.

Renzi e Civati non sono due rottamatori e non sono ancora pronti con le soluzioni in mano ma sollevano un problema che è quello di aprire i processi di proposizione e decisione politica, rappresentando ad un pubblico più vasto la ricchezza di idee e di energia che il fronte democratico ha al suo interno.