Arif e il merito. Il sostegno allo studio in salsa leghista

Il mio articolo per iMille magazine

Sul finire degli anni ottanta emigrare e studiare a Torino non era una scelta facile. I ragazzi del meridione che scartavano le facoltà vicine sceglievano questa città per il Politecnico. Lo facevano attraverso un passa parola, con beneplacito di qualche parente che magari aveva avuto trascorsi in questa città come operaio e ne ricordava il profilo austero e la fama del Poli.

Scegliere Torino allora voleva significare essere etichettato come il “secchione” della classe perché la città, negli occhi dei liceali smaniosi di fare un’esperienza di vita fuori di casa, non sembrava offrire grandi distrazioni. Si preferiva Roma, Milano, la godereccia Emilia o le città a misura d’uomo della Toscana.

Un alloggio condiviso a San Salvario con qualche compaesano, pochi soldi, pochi posti letto in collegio (sistemazione preferita da genitori un po’ preoccupati dalla grande città); una via Roma monumentale ma deserta, le piazze di Torino utilizzate come parcheggi. Era questo il panorama di allora che si presentava agli studenti emigranti mentre crollavano i muri, arrivava Tangentopoli e Torino finiva sui telegiornali per la Fiat e il “problema” San Salvario cavalcato da Borghezio e soci.

Di quegli anni sono rimasti loro, gli uomini verdi. I “marziani” hanno conquistato il potere in questi vent’anni quando tutto intorno a loro è cambiato.

Torino è diventata più vivibile anche nell’ottica di uno studente fuorisede, l’ente regionale per il diritto allo studio ha triplicato i posti letto grazie ad investimenti pubblici e all’eredità olimpica, le piazze sono pedonali e a San Salvario vanno ad abitarci i professionisti di grido. C’è anche la movida studentesca, i bus notturni per i ragazzi, le bici del bike-sharing prese alle due di notte per tornare a casa.

Il “problema” dell’emigrazione, è ben controllato e gestito da un’amministrazione aperta e lungimirante. Torino non è Milano, non è Roma.
C’è un certo rigore e anticipo nella gestione dei problemi che ti viene introiettato quando vivi questa città. Anche mentre cerchi di passare l’esame di Geometria, ed è forse il motivo per cui molti poi rimangono o comunque ricordano Torino e il Piemonte come una bella esperienza.

Anche gli studenti sono cambiati. I meridionali continuano ad arrivare, confortati dai successi professionali dei loro fratelli maggiori, ma si sono aggiunti studenti stranieri: gli erasmus, gli albanesi adottati, i cinesi, i pachistani come Arif.

Loro rappresentano l’ultimo anello, quello più debole e da colpire da parte di una politica vigliacca attraverso il taglio di ottomila borse di studio. La città, l’Università, il Politecnico, l’EDISU dopo aver investito per anni per attrarre studenti da ogni parte del mondo si trovano di fronte alla scelta di dover smobilizzare investimenti immobiliari per far fronte ai tagli regionali.

La bandiera oggi è improvvisamente il merito (come se fino a ieri i criteri meritocratici non fossero inseriti nei bandi delle borse di studio) e la Lega – attraverso il suo governatore – la cavalca in maniera scomposta come può fare una forza politica che ha sostenuto una battaglia politica anche per far diplomare il figlio del capo.

Vincenzo Laterza, rappresentante degli studenti dell’EDISU mette in discussione il nuovo mantra del governatore “Cota dice: d’ora in poi il criterio dovrà essere quello della meritocrazia, che finora non è esistito. Non è possibile che i soldi pubblici vengano spesi in questo modo, che al primo anno di università l’unico criterio sia il reddito. Il merito deve diventare un principio sacrosanto.

Il governatore si sbaglia: oltre ai parametri di reddito, infatti, l’Edisu prevede soglie di merito da rispettare. Solo per gli studenti iscritti al primo anno è previsto esclusivamente il parametro d’ingresso relativo al reddito. Questi ultimi, però, sono comunque obbligati a raggiungere 20 crediti entro l’anno accademico (di fatto un criterio di merito). Quando questo non avviene, il borsista è obbligato alla restituzione del 100% della borsa di studio ed al pagamento dell’affitto mensile nel caso abbia usufruito di un posto letto”

Il giovane rappresentante smonta anche la proposta del governatore di far pagare alle Regioni di provenienza parte delle borse di studio: “Tutti gli iscritti agli atenei piemontesi pagano una Tassa regionale per il Diritto allo Studio. L’ammontare di questa tassa è superiore ai 13 milioni di euro. La tassa è riscossa interamente dalla Regione Piemonte a prescindere da chi la paghi, sia piemontese, cinese, salentino o siciliano.”

Un taglio ideologico, fuori tempo massimo in una fase in cui il nostro Paese sta subendo un profondo cambiamento di valori nel giro di pochi mesi e la formazione diventa una delle chiavi di volta per uscire dalla crisi. E’ un segno di stupidità forse consapevole: togliere fieno a chi con il cervello può criticare determinate scelte politiche per darlo in giro alle feste di paese dove il ritorno elettorale è garantito.

L’anno scorso Arif ha dovuto dormire per qualche notte in stazione e di giorno seguire i corsi al Politecnico. Ha seguito tutti i passi necessari per ottenere quest’anno una borsa, avendo ottenuto 30 crediti su 50. Sperava di vivere il suo secondo anno torinese con più tranquillità ed invece improvvisamente non ha più le risorse economiche per pagarsi il rinnovo del permesso di soggiorno. Studente e clandestino, l’identikit forse più inviso agli elettori della Lega.

In soccorso di Arif è intervenuta l’associazione Acmos che ha deciso di affrontare questi casi emblematici ospitando temporaneamente Arif e i suoi amici in una casa di accoglienza. Francesco Mele, segretario del PD di San Salvario – la storia si ripete riabilitando i luoghi della protesta leghista di ieri in un ottica di integrazione delle culture che il quartiere tra mille problemi vive come risorsa – ha proposto agli altri circoli democratici cittadini di sostenere economicamente Arif. La proposta è stata accolta ma altri 7.999 studenti italiani e non, in gran parte piemontesi, si trovano di fronte ad una scelta che può cambiare radicalmente la loro esistenza.

Arif ringrazia su Facebook chi si è preoccupato per lui e i suoi amici ma un Paese civile non può rendere virtuale un diritto sancito dalla Costituzione.

La difficoltà di guardarsi allo specchio

In questi giorni il web impazza di segnalazioni sui figli di papà e mamma di questo governo.
Persino nelle chiacchiere sui posti di lavoro si discute dei discendenti di Monti, Fornero e Cancellieri per non parlare del Ministro Martone (l’unico un po’ fuori le righe onestamente).
Questo atteggiamento non era mai esploso con questa virulenza – e mal celata invidia sociale – negli ultimi tempi. Neanche nei momenti più bui quando il Trota era difeso dal padre contro gli insegnanti “terroni” colpevole di fermare un ignorante pluripatentato. Nessuno, per esempio, si è indignato nello scoprire che la CEPU venisse promossa a rango di ateneo telematico con relative prebende pubbliche. E se c’era invidia sociale nei confronti di personaggi come la Minetti, assistente alla poltrona laureata, non era per il titolo di studio ma per come si fosse costruita il suo curriculum e non solo.

L’improvviso risveglio della coscienza collettiva – sempre e comunque “contro”, molto fiera spesso della sua mediocrità – è imputabile solo a qualche infelice battuta dei nostri attuali ministri ?

Non è una chiave di lettura convincente. C’è qualche carattere antropologico del popolo italiano che vuole emergere e dirci qualcos’altro.

La storiella del saggio che punta il dito alla luna può spiegare questa situazione. I messaggi che arrivano in questi giorni da vari fronti ministeriali esprimono l’esigenza di un radicale cambiamento della società italiana: i ragazzi debbono essere meno mammoni, debbono muoversi, debbono sapersi confrontare con un mondo del lavoro diverso. Questo messaggio non urterebbe un giovane francese o inglese. Non urta neanche un calabrese che fa 1000 chilometri per studiare al Politecnico di Torino. Non urta un pachistano – notizia vera segnalatami stamattina – che, dopo aver visto tagliata dal governo Cota la sua borsa di studio, ha continuato a dare esami all’Università dormendo alla stazione di Porta Nuova. Con tre euro in tasca ma una voglia di riscatto degna di ben altro sostegno da una società civile ormai assuefatta.

L’assuefazione evidentemente porta a confondere la luna con il dito del saggio. Qui, l’indignazione è pronta a venir fuori con tutto il corollario di email, post, link, articoli di giornalisti che hanno fatto il praticantato nelle testate possedute dall’utilizzatore finale della “assistente alla poltrona”.

La colpa sarebbe la carriera agiata dei figli di papà: tutti splendidamente laureati per tempo, con borse di studio ad Harvard o comunque con periodo di soggiorno all’estero, assunti da organizzazioni internazionali che non guardano in faccia a nessuno (perché solo da noi guardano il cognome prima del titolo di studio). E’ ovvio che essendo espressione di un’alta borghesia intellettuale i padri abbiano spronato i figli a studiare (con ampio rispetto dei loro insegnanti e della scuola pubblica). E’, altrettanto, ovvio che le relazioni familiari di un certo livello favoriscano occasioni che non tutti possono avere, ma sono anche un onere e un continuo sprone. Per dire, con tanta fortuna e cotanto cognome, potevano starsene comodi a casa, laurearsi arrivati quasi agli anta e trovare sistemazioni tranquille e comunque soddisfacenti.

A molti sfugge che c’è per fortuna in molti italiani ancora la voglia di non essere da meno della propria storia familiare. C’è il giusto ambire, la voglia di riscatto oggi presente molto di più negli occhi dei nuovi italiani. E’ un meccanismo questo che ha permesso l’evoluzione positiva della nostra società negli ultimi quarant’anni fin quando abbiamo pensato fosse più semplice illudersi. O darla.

Stranamente non fa notizia che il figlio del premier sia disoccupato in un’epoca dove non c’è deputato che abbia sistemato i parenti fino al secondo livello, compreso il tanto caro Di Pietro (con il figlio in politica, con quali meriti specifici?) e i gli amati grillini, pronti ad utilizzare alcuni privilegi dello status di consigliere regionali per le gentil consorti.

Insomma forse a questa parte di Italia – molto trasversale – non va giù di rimboccarsi le maniche. Non accetta che l’unica soluzione è rinunciare ad un sistema di privilegi, anche piccoli e marginali (difesi molto bene allo stesso modo da sindacati e Confindustria) ma pur sempre tali, altrimenti come Paese non usciremo da queste secche. Questa parte d’Italia trova molto più comodo far finta di non vedere che il sistema sta crollando con la complicità di tutti spostando il problema su casi personali. E lo fa con gli stessi strumenti mistificatori inventati ed utilizzati da chi in vent’anni ha contribuito enormemente a portarci in questo stato.

Come popolo troviamo più comodo farci illudere che la vita (degli altri) è semplice, piuttosto che rimboccarci le maniche.